venerdì 24 febbraio 2012

2011- LA RIVISTA JOURNAL OF SCIENTIFIC EXPLORATION (JSE) E’ TORNATA SUL FENOMENO HESSDALEN

L’anno scorso la rivista JSE ha pubblicato due articoli sulle “Luci di Hessdalen”.

E’ bene ricordare che il JSE è una delle poche riviste a carattere scientifico dedicata ai fenomeni di confine, che normalmente trovano raramente posto nelle riviste scientifiche contemporanee più accreditate.

Detto questo sarebbe doveroso chiedere anche a queste rare iniziative su argomenti quali i Fenomeni Luminosi in Atmosfera del tipo di Hessdalen una maggiore severità nel referaggio degli articoli. Vero è che data la scarsa mole di studi riguardo questi fenomeni trascurati, è difficile trovare il bandolo della matassa dato anche che quei pochi scienziati che se ne sono occupati hanno operato su una scarsa quantità di dati.

Ciò è essenzialmente dovuto al fatto che non sappiamo dove certi FLA si verificano e le cosiddette “zone di ricorrenza” delle Earthlights sono spesso in luoghi lontani, come ad es. la valle norvegese di Hessdalen dove, l’esperienza insegna, è fisicamente difficile collocare strumenti e raccogliere dati. Senza parlare della scarsità di mezzi finanziari per meglio indagare il fenomeno.

Il primo articolo pubblicato dal JSE è:

Paiva S. Jarson & Taft C.A., “Hessdalen Lights and Piezoelectricity from Rock Strain”, riv. Journal of Scientific Exploration, vol. 25, n. 2, 2 febbraio 2011, pp. 273-279.

In questo articolo gli Autori tornano a parlare della loro ipotesi “Dusty Plasma Theory” di cui avevo dato informazione su questo blog, e suggeriscono che la piezoelettricità del quarzo, spesso portata a spiegazione di alcune Earthlights, non può spiegare certe particolari peculiarità assunte dal fenomeno luminoso di Hessdalen (HP), come la presenza di strutture geometriche di luce.

Gli Autori precisano che siamo spesso di fronte ad osservazioni di tipo contraddittorio ed altrettante spiegazioni, dove comunque l’ipotesi piezoelettrica ha assunto una maggiore credibilità.

Questa ipotesi però non basterebbe a spiegare tutti i comportamenti del fenomeno.

Un primo limite di questo articolo potrebbe proprio essere nel fatto che per documentare queste strutture geometriche a “bassa intensità luminosa” (?), si faccia riferimento a due immagini tratte da un video dell’astrofisico Teodorani (2004) che ha fatto molto discutere a quel tempo.

Vero è che disponendo di una quantità davvero limitata di immagini del fenomeno Hessdalen una tale scelta può essere comprensibile, ma non può essere attuata semplicemente eliminando i dubbi per via dialettica, circa un’immagine che non è attendibile al 100%. Non basta solo affermare che : “… is not a result of videocamera pixilation effects, since the same kind of shape is recorded by conventional photography” (p. 276).

Il secondo articolo su JSE è:

Paiva S. Jarson & Taft C.A., “Colors Distribution of Light Balls in Hessdalen Lights Phenomenon”, riv. Journal of Scientific Exploration, vol. 25, n. 4, 10 luglio 2011, pp. 735-746.

Qui, gli stessi due Autori, in accordo con la loro ipotesi che queste luci sono prodotte da elettroni accelerati da campi elettrici, durante rapide fratture di rocce piezoelettriche, indicano un modello fisico.

Le “sfere di luce” di Hessdalen sarebbero prodotte da onde acustiche di ioni ( IAW) interagenti con il nucleo centrale di luce di colore bianco dell’HP.

Anche in questo caso il testo dell’articolo presenta alcune affermazione che potrebbero essere considerate non proprio accurate. Per esempio si dice che “… the production of balls of distinctly different color at Hessdalen differ from standard ball lightning behavoir” (p. 736). Non si evidenzia che il “fulmine globulare” è un fenomeno ancora poco conosciuto (e dimostrato solo in laboratorio) e che coloro che hanno raccolto e catalogato testimonianze del fenomeno hanno rilevato un ampio spettro di colori (vedi ad es.: Carbognani Albino, “Fulmini Globulari”, Macro Edizioni, 2006, p. 50).

Questa differenza tra fulmini globulari e fenomeno di Hessdalen è stata spesso affermata ma mai dimostrata.

Gli Autori affermano che il colore delle sfere di luce di Hessdalen potrebbe essere il prodotto di “quantum dots” di spore di muffe, quali principali elementi semi-conduttori, su un solo lato del plasma o, in alternativa, prodotti da “aereosols” naturali, la cui natura varia con il luogo.

Precisano che comunque questa teoria non può spiegare l’intensità di luce delle sfere “satelliti” di certe osservazioni.

In questo lavoro gli Autori propongono un modello che spieghi la distribuzione spaziale del colore delle Hessalen Lights.

In accordo con questo modello, molti colori delle luci di Hessdalen sono il prodotto dell’accelerazione di elettroni dovuto ai campi magnetici che si formano con la frattura rapida di rocce piezoelettriche, specialmente nei periodi più freddi quando l’acqua sotterranea ghiaccia.

Le luci verdi (semi-relativistiche) del fenomeno Hessdalen sono dovute alla emissione di luce dell’ossigeno ionico, trasportato da onde acustiche di ioni ( IAW) che interagiscono con la luce bianca della sfera luminosa di Hessdalen.

Perché queste luci periferiche al fenomeno principale sarebbero verdi? Ciò sarebbe dovuto alla pressione della radiazione prodotta dall’iterazione tra VLF (Very Low Frequencies) e gli ioni dell’atmosfera (presenti nella parte centrale bianca della “sfera di luce”) attraverso le onde acustiche di ioni (IAW).

Questo modello mette in discussione le ipotesi sviluppate nel 2004 da Teodorani, circa le osservazioni di una luce centrale bianca che ne espelle altre.

Teodorani si era affidato all’ipotesi del fulmine globulare di Turner e riteneva che le luci “satelliti” potessero essere il frutto della ri-minimizzazione della superficie energetica effettiva.

Gli Autori dell’articolo, per confermare la loro tesi, riportano le analisi dello spettro di Hauge (2007) che parlava di presenza di ioni di silicio e scandio. Ciò sarebbe compatibile con il modello da loro proposto.

Ma noi sappiamo che i risultati dello spettro di Hauge sono stati relativizzati dallo studioso stesso dopo un iniziale entusiasmo.

Gli Autori aggiungono che linee di elio sono state ritrovate nello spettro di Hauge (2007) e questo per loro: “Può essere una forte evidenza di fusione nucleare fredda in questi plasma atmosferici, dato che l’elemento chimico è un prodotto di una fusione nucleare di atomi di deuterio in un reattore a fusione nucleare”.

Simili affermazioni con riferimento alla "fusione fredda" sono a parere di molti studiosi troppo speculative.

Per fortuna gli Autori concludono che il meccanismo di emissione dell’elio ha bisogno di essere ancora delucidato. Una alternativa, concludono più semplicemente, è che l’elio fuoriesca dalle rocce. Una volta che le rocce si fratturano, ioni di elio emettono luce una volta che ricatturano elettroni in atmosfera.

Molti studiosi potranno comunque apprezzare lo sforzo di modellizzazione di Paiva e Taft, ma se saranno abbastanza critici non potranno fare a meno di richiedere una maggiore solidità dei dati raccolti sul fenomeno, prima di mettere in campo sofisticati modelli di fisica.

Personalmente mi auguro che queste complesse speculazioni possano sollecitare l’interesse di nuovi studiosi, ma c’è il rischio, già corso in passato, di costruire un robusto edificio concettuale senza aver prima costruito le fondamenta atte a sostenerlo.

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